Il miracoloso NodeJS

piattaforma Open Source event-driven

NodeJS – una piattaforma Open Source event-driven

Ok, ammetto che fino a non molto tempo fa mi ero quasi scordato di Javascript, nonostante fosse stato uno dei primi linguaggi da me studiati, nel lontano 1997, quando mi approcciai al mondo del web; negli anni successivi pero’, non essendo io uno sviluppatore, le tecnologie di gestione e deploy dei server web che dovevo gestire si erano spostate verso un grande quantitativo di linguaggi, in particolare per la parte back-end , passando cosi dal php, perl, python, java, ruby, lua etc……

Come stavo dicendo, per me javascript era rimasto in sordina come un linguaggio di scripting che intercorreva tra l’hmtl ed il css, nella composizione piu’ o meno dinamica di una pagina web ,prima che i pesi massimi sopra citati entrassero in campo per svolgere il duro lavoro.

Poi, un giorno, a ciel sereno……BOOOOOOOMMMM ! scopro l’esistenza di NodeJS, ed iniziai a chiedermi a cosa si dovesse tutto l’interesse di cui stavo leggendo; scopro quindi che NodeJS e’ una piattaforma Open Source event-driven per l’esecuzione di codice JavaScript Server-side, costruita sul motore V8 di Google Chrome. Mmmmhhhh, ok bene, ma quindi? cosa fa?

Ebbene questa piccola rivoluzione creata da Google consente agli sviluppatori di realizzare web application con JavaScript non più solo lato client, ma anche sfruttandolo come linguaggio di programmazione lato server.

E gli sviluppi sono davvero moltissimi, cosi tanti che mettere un’elenco sarebbe noioso e stancante ma, tanto per farne uno molto odierno, con NodeJS possiamo, ad esempio, realizzare dei ChatBot.

Ma qual’e’ dunque il funzionamento che lo rende cosi appetitoso? Innanzitutto partiamo dal dire che Node funziona con una logica a eventi: quando un evento viene generato, allora viene eseguita un’azione. Grazie a questa tecnica non bisogna attendere che le istruzioni precedenti siano terminate, rendendo cosi il tutto molto veloce.

Nella pratica, non c’e’ bisogno di sapere come funziona il V8 per poter utilizzare NodeJS, basti sapere che e’ l’interprete javascript piu’ veloce al mondo, poiche’ e’ stato altamente ottimizzato utilizzando un tipo di programmazione JIT (Just In Time), che trasforma rapidamente il codice javascript in linguaggio macchina.

Ma la cosa che, almeno a parere personale, mi ha maggiormente colpito, e’ stato quello che possiamo chiamare come “Modello non bloccante” , questo si basa sul concetto degli eventi, ma per meglio chiarire dovremmo spiegare un minimo la differenza tra modello bloccante e NON bloccante.

Immaginiamo di dover creare un programma che ci permetta di scaricare un file da internet e che alla fine dell’esecuzione del download ci mostri un messaggio.

Bene, con il modello classico (bloccante) basato sulla programmazione sincrona potremmo schematizzare il processo nel seguente modo:

  • Scarica il file
  • Mostra il messaggio
  • Fai qualcos’altro

Ci aspetteremmo quindi che le azione vengano eseguite in ordine, leggendo le operazioni da eseguire dall’alto verso il basso.

Nel sistema asincrono di NodeJS invece le operazioni verranno svolte nel seguente modo:

  • Scarica file
  • Fai qualcos’altro
  • Mostra il messaggio

Perche’ questa diversita’ nell’esecuzione rende il tutto piu’ veloce e performante? Beh perche’ mentre il sistema effettua il download del file, il programma non rimane in attesa che il processo venga portato a termine ma anzi nell’attesa il programma esegue altre operazioni.

Il codice in oggetto avra’un aspetto tipo questo:

request(‘http://www.site.com/file.zip’, function (error, response, body) {
console.log(“Download completato!”);
});

console.log(“Mentre aspetto eseguo il resto del codice…”);

Quello appena descritto qui sopra e’ un’esempio di procedura di callback 

Ok ma se non fosse ancora del tutto chiaro, proviamo ancora a spiegare perche’ le callback sono cosi importanti, procediamo con l’esempio di prima ed aggiungiamo una difficolta’; adesso i file da scaricare sono diventati due, dunque nel sistema sincrono il programma procederebbe nel seguente modo:

  • Scarico primo file
  • Attendo che finisca
  • Scarico secondo file
  • Attendo che finisca
  • Mando messaggio

La grande differenza in questo esempio sarebbe che con NodeJS verrebbero lanciati entrambi i download, nello stesso momento, permettendo gia cosi un piu’ veloce download e, nel frattempo il programma e’ in grado di svolgere eventuali altri compiti. Ma questo come dicevo e’ soltanto un esempio, invece di un download multiplo, potrebbero essere delle query ad un DB, o la richiesta di dati a servizi esterni tramite API (Facebook, Twitter).

Pensiamo quindi ad un sistema come Facebook, che riceve X richieste di Like ogni tot secondi e vengono cosi aperti N operatori che devono attendere il loro turno per fare la modifica (del like) consumando comunque energie anche mentre sono fermi in attesa; invece NodeJS nella stessa situazione di richiesta di “reaction” sul sisto di FB (like o altro) si comporterebbe nel seguente modo:

metterebbe tutte le richieste in ordine di arrivo, prenderebbe la prima e, vedendo che si tratta di una sfilza di input le inserirebbe all’interno del sistema e, una volta capito che si tratta di stesse azioni (ad esempio che aggiungono un Like) che devono contattare un DB, NodeJS contatta il DB e invece di attendere per effettuare ogni singola modifica, aggancia alla richiesta una callback, per ogni richiesta di modifica, tutti uno dietro l’altro. Quando il DB finisce la prima modifica scatta la callback e NodeJS restituisce all’utente l’avvenuta modifica della pagina e cosi via, gestendo quindi con un solo operatore le N richieste di modifica del Like invece di crearne uno per ogni richiesta e parcheggiandoli tutti in attesa della loro singola modifica. Quindi con un server (magari anche un container con Docker) e con poche risorse possiamo gestire un’enorme quantita’ di richieste al secondo.

Inoltre NodeJS usa come sistema di pacchetti e librerie l’NPM, ma di questo fantastico sistema di librerie parleremo in un’altro articolo.

Nel prossimo articolo su NodeJS parleremo anche di 5 nuovi framework ottimi per chi si occupa di sviluppare.

#NodeJS

 

Docker i Container ed i Microservices

Docker ed i Microservices

Docker ed i Microservices

Su questo portale abbiamo gia piu’ volte scritto e descritto la tecnologia che sta dietro al progetto Docker, sicuramente una delle nuove scoperte informatiche degli ultimi anni, a livello dell’uscita della Virtualizzazione; ma nonostante tutto, non sempre e’ facile capire in poche righe concetti nuovi non sempre semplici da comprendere, quindi eccovi un nuovo articolo, che fara’ parte di una piccola serie di episodi, in cui cercheremo di fare ulteriormente luce su cos’e’ e come funziona questo fantastico progetto.

Dagli script PHP ai microservice
Alla fine degli anni ’90 i siti erano per lo più ancora statici, con qualche script CGI , o altre soluzioni oggi considerate poco eleganti. Poi arrivarono ASP JAVA e PHP. Da li in avanti un progetto Web era prettamente fondato, ad esempio, su file PHP, CSS e immagini; in queste soluzioni tecnologiche era sufficiente copiare tutti questi file su uno spazio hosting e al più modificare qualche file di configurazione, per ricreare un nuovo ambiente web e ricominciare su di un nuovo sito.

Venti anni dopo gli scenari sono drasticamente diversi, le architetture SOA hanno preso piede, si è iniziato a parlare di microservice e tutto è diventato più complesso. Un’applicazione web, soprattutto in ambito enterprise, non è più la directory di cui parlavamo prima, ma un’ insieme di componenti autonomi, ognuno col suo ciclo di vita indipendente, rilasciati su macchine diverse e a ritmi sempre crescenti.

Una complessità così grande non può piu’ essere amministrata con il vecchio copia e incolla, diventa cosi’ necessario uno strumento affidabile che consenta di manipolare o spostare intere applicazioni limitando errori umani, checklist lunghissime da controllare e tutti i passaggi snervanti e carichi di rischi necessari per il deployment.

I container
Cosi’ come nell’industria dei trasporti nacque l’esigenza di una soluzione unica intercambiabile, vennero cosi creati i container: contenitori multiuso, realizzati in formati standard che possono essere passati con facilità da un camion a una nave, poi magari su un treno merci e così via.

Anche nel campo informatico abbiamo bisogno di qualcosa che “contenga” la nostra applicazione, che ci consenta di manovrarla con facilità senza sapere nulla, o quasi, riguardo il suo contenuto. In pratica, abbiamo bisogno anche noi del nostro container!

Docker
L’intuizione del team di Docker è stata quella di prendere il concetto di container e costruirvi attorno un’ ecosistema che ne semplificasse l’impiego. Di questo ecosistema fanno parte una serie di tool: Docker engine, Docker Toolbox, Swarm, Kitematic e tant’ altro ancora per rendere i container qualcosa di accessibile anche a chiunque, sfruttando anche il fatto che la community di sviluppatori che utilizza Docker è davvero molto vasta. Ad esempio, Docker Hub è un repository di container pubblici pronti per l’uso, mentre il codice sorgente del Docker engine è liberamente disponibile su GitHub e vanta quasi 1500 contributor.

Container VS Virtual Machine
Apparentemente i container e le virtual machine sembrano due concetti molto simili ma, sebbene queste due soluzioni abbiano delle caratteristiche in comune, si tratta di tecnologie profondamente diverse tra loro, così come diverso è anche il modo in cui dobbiamo iniziare a pensare all’architettura delle nostre applicazioni. Possiamo creare un container con la nostra applicazione monolitica all’interno, ma così non sfrutteremmo a pieno la forza dei container e quindi di Docker.

Una possibile architettura software adatta per un’infrastruttura a container è la classica architettura a microservizi. L’idea, in pratica, è quella di scomporre l’applicazione in tante piccole componenti ognuna col suo compito specifico ma capaci di scambiarsi messaggi e di cooperare tra loro, cio’ che e’ alla base dei sistemi SOA. Il deploy di tali componenti avverrà poi effettuato singolarmente, come tanti container.

Uno scenario come quello ipotizzato è assolutamente poco pratico con una macchina virtuale, in quanto ogni nuova macchina virtuale istanziata richiederebbe un bel dispendio di energia per la macchina host. I container, al contrario, sono molto leggeri, poiché effettuano una virtualizzazione completamente diversa da quella praticata dalle macchine virtuali.
Nelle macchine virtuali, lo strumento detto hypervisor si preoccupa di riservare (staticamente o dinamicamente) un certo quantitativo di risorse dal sistema operativo host da dedicare poi ad uno o più sistemi operativi, detti guest o ospiti, inoltre ogni sistema operativo guest sarà completamente isolato dal sistema operativo host. Questo meccanismo è molto dispendioso in termini di risorse, per cui l’idea di associare un micro-servizio ad una macchina virtuale è del tutto irrealizzabile.

I container, d’altro canto, apportano un contributo completamente diverso alla questione, l’isolamento è molto più blando e tutti i container in esecuzione condividono lo stesso kernel del sistema operativo sottostante, host. Scompare completamente l’overhead dell’hypervisor, e un singolo host può arrivare a ospitare centinaia di container.

Docker VS VirtualMachine

Docker VS VirtualMachine

Nel prossimo articolo rivedremo come installare Docker tramite i Docker-ToolBox, e come interagire con i container.
Alla prossima

Breve corso di Vagrant – Puntata 1

Vagrant Stack-LAMP

Vagrant Stack-LAMP

Dopo aver gia scritto in precedenti articoli di Vagrant ho sentito l’esigenza di metter, come si suol dire, nero su bianco un piccolo corso/progetto da portare avanti su queste pagine in cui verra’ spiegato non solo l’uso piu’ avanzato di Vagrant ma anche alcuni concetti fondamentali inerenti la creazione di un servizio WEB moderno, introducendo i concetti di “scalabilita’” e di “high availability“.

Iniziamo con un breve elenco dei comandi di vagrant usati più comunemente :
vagrant init [nome-box] [url-box] = inizializza la directory corrente come ambiente per Vagrant e crea il file di configurazione Vagrantfile
vagrant up = crea, configura e avvia la macchina virtuale definita in Vagrantfile . Se la macchina virtuale già esiste, la fa solo partire
vagrant halt <nome macchina> = ferma una macchina virtuale
vagrant destroy = elimina la macchina virtuale
vagrant ssh <nome macchina> = si collega alla macchina virtuale via ssh

Nel seguente esempio verra’ creata una directory che conterra’ il progetto di Vagrant, poi, inizializzemo il progetto, configureremo una macchina virtuale, la lanceremo e infine ci collegheròemo. I seguenti comandi creeranno una macchina virtuale con Ubuntu 14.04 (64bit). Notate che la prima volta che eseguirete questa serie di comandi, verrà scaricata dalla rete un’immagine del sistema operativo Ubuntu. Per farlo ci potranno volere svariati minuti, a seconda anche del tipo di connessione ADSL di cui disponete. Le volte successive, il processo sara’ molto più rapido, perché l’immagine usata per creare la macchina virtuale sarà già stata memorizzata nel vostro sistema.

PARTIAMO
Questi sono i primi comandi che useremo: vagrant init ubuntu/trusty64  &  vagrant up

<> vagrant init ubuntu/trusty64
A `Vagrantfile` has been placed in this directory. You are now
ready to `vagrant up` your first virtual environment! Please read
the comments in the Vagrantfile as well as documentation on
`vagrantup.com` for more information on using Vagrant.

<> vagrant up
Bringing machine ‘default’ up with ‘virtualbox’ provider…
==> default: Box ‘ubuntu/trusty64’ could not be found. Attempting to find and install…
default: Box Provider: virtualbox
default: Box Version: >= 0
==> default: Loading metadata for box ‘ubuntu/trusty64’
default: URL: https://atlas.hashicorp.com/ubuntu/trusty64
==> default: Adding box ‘ubuntu/trusty64’ (v20151214.0.0) for provider: virtualbox
default: Downloading: https://atlas.hashicorp.com/ubuntu/boxes/trusty64/versions/20151214.0.0/providers/virtualbox.box
default: Progress: 6% (Rate: 115k/s, Estimated time remaining: 0:43:23)))
==> default: Preparing network interfaces based on configuration…
default: Adapter 1: nat
==> default: Forwarding ports…
default: 22 => 2222 (adapter 1)
==> default: Booting VM…
==> default: Waiting for machine to boot. This may take a few minutes…
default: SSH address: 127.0.0.1:2222
default: SSH username: vagrant
default: SSH auth method: private key
…………..etc etc !!

> vagrant ssh
Welcome to Ubuntu 14.04.3 LTS (GNU/Linux 3.13.0-73-generic x86_64)

* Documentation: https://help.ubuntu.com/

System information disabled due to load higher than 1.0

Get cloud support with Ubuntu Advantage Cloud Guest:
http://www.ubuntu.com/business/services/cloud

vagrant@vagrant-ubuntu-trusty-64:~$ ifconfig
eth0 Link encap:Ethernet HWaddr 08:00:27:6b:55:0f
inet addr:10.0.2.15 Bcast:10.0.2.255 Mask:255.255.255.0
inet6 addr: fe80::a00:27ff:fe6b:550f/64 Scope:Link
UP BROADCAST RUNNING MULTICAST MTU:1500 Metric:1
RX packets:544 errors:0 dropped:0 overruns:0 frame:0
TX packets:392 errors:0 dropped:0 overruns:0 carrier:0
collisions:0 txqueuelen:1000
RX bytes:69053 (69.0 KB) TX bytes:53324 (53.3 KB)

lo Link encap:Local Loopback
inet addr:127.0.0.1 Mask:255.0.0.0
inet6 addr: ::1/128 Scope:Host
UP LOOPBACK RUNNING MTU:65536 Metric:1
RX packets:0 errors:0 dropped:0 overruns:0 frame:0
TX packets:0 errors:0 dropped:0 overruns:0 carrier:0
collisions:0 txqueuelen:0
RX bytes:0 (0.0 B) TX bytes:0 (0.0 B)

vagrant@vagrant-ubuntu-trusty-64:~$ exit

Dato che il nostro obiettivo è arrivare ad avere uno Stack LAMP, sappiamo che dovremo tenere conto di dover ancora installare e configurare gli altri software necessari ossia,  Apache, MySQL e PHP. Ci sono però anche altri componenti meno ovvi di cui va tenuto conto. Iniziamo studiando lo stack LAMP su di un modello di web application 2.0. Vediamo quindi di spiegare alcuni concetti fondamentali per questo tipo di architetture che vanno decisi prima d’iniziare a creare fisicamente le macchine/server che ci servono.

Scalabilità VS Disponibilità

Scalabilità verticale
Si può scalare un sistema senza aumentarne la disponibilità o il tempo di uptime. Esemplifichiamo, diciamo che vogliate gestire più utenti, più traffico e più carico per l’applicazione web, se si tratta di un server fisico, potreste spegnerlo, installare più memoria e potenziare la CPU, ad esempio. Potreste anche copiare tutti i dati da un solo piccolo server ad un server più grande che abbia più memoria, una CPU più potente e dischi più veloci. Se invece state usando un server virtuale, potreste fermarlo, allocare maggiori risorse e riavviarlo. Se il server è posizionato nel cloud, potrete cambiare il tipo di istanza ad uno che abbia più risorse. Questo si chiama scalare verticalmente. Non c’è niente di male in questo tipo di scalabilità, soprattutto se avete applicazioni in cui il tempo di fermo e’ accettabile.

Scalabilità orizzontale
Un’ altro modo per scalare è di aggiungere altri server, che a volte vengono indicati con il termine di nodi. Questo si chiama scalabilità orizzontale. Per scalare orizzontalmente, si deve fare prima un po’ di lavoro in anticipo, e progettare bene la transizione. Per andare ad esempio da un server web a due, dovrete trovare un modo per instradare il traffico al nodo aggiuntivo, e preferibilmente suddividere il carico tra i due server. Se vi servono più risorse, aggiungete un terzo server,  un quarto, un quinto e cosi’ via. Quando invece avete un solo server, e questo va giù, il servizio si interrompe, ma se avete più di un server che fanno gestiscono la stessa funzione, e uno di loro ha un malfunzionamento, lo scenario peggiore è che il servizio è degradato e non altrettanto prestante come di solito. Lo scenario migliore avviene quando un singolo malfunzionamento non viene nemmeno notato.

Il meglio di entrambi i mondi
In molti casi ha senso scalare il server web in modo orizzontale, e il server di database in modo verticale. Vedremo piu’ avanti, nei prossimi articoli, come prendere il meglio di entrambi i mondi, eliminando, o almeno riducendo moltissimo, il tempo di fermo per il servizio.

Nel secondo capitolo inizieremo la configurazione del file Vagrant per la preparazione delle 5 macchine necessarie al nostro progetto.

Stay Tuned !

CoreOS nuova rivoluzione nel Cloud

CoreOS new Cloud System

CoreOS new Cloud System

Poco tempo fa ho pubblicato un breve articolo introduttivo riguardante CoreOS ed il suo uso nei DataCenter, ma in pratica cos’ha di così interessante CoreOS ? Lo sviluppatore di CoreOS, Alex Polvi, è partito da ChromeOS, il sistema operativo sviluppato da Google intorno al browser Chrome, per ottenerne molto di più.

Dunque, partendo da questo presupposto si potrebbe affermare che CoreOS e’ in definitava una distribuzione Linux pensata per gli ambienti server, ma a differenza dei prodotti Linux-based già riservati al settore server ed enterprise, CoreOS prevede solo il kernel di Linux ed il systemd, ossia il gestore dei processi per avviare i servizi essenziali all’inizializzazione del sistema.

In pratica questo sistema operativo è pensato per i clienti che devono avviare e gestire cluster di centinaia di server e si inserisce quindi come un server Linux per le distribuzioni ad alto volume di dati e di traffico (IaaS, PaaS, SaaS). In maniera molto semplicistica, potremmo dire che CoreOS impacchetta Internet in una singola postazione, permettendo di ospitare infrastrutture simili a quelle di Amazon e Google sul proprio computer, grazie alla potenza di questo sistema operativo altamente scalabile che portera’ non poco risparmio alle startup del mondo cloud computing.
CoreOS offre quindi l’infrastruttura necessaria a ospitare i componenti di qualsiasi applicazione Web e non è dotato di null’altro, se non dei bit sufficienti per eseguire i contenitori. A tale riguardo, come gestore dei contenitori, CoreOS utilizza Docker e, come già spiegato in precedenza, la scelta dei contenitori, a differenza della virtualizzazione, permette di gestire meglio le performance della macchina e di distribuire la medesima configurazione su differenti hardware.

CoreOS, inoltre, si rifà a ChromeOS per quanto riguarda la questione degli aggiornamenti, infatti il sistema operativo supporta gli aggiornamenti automatici in background e non crea problemi d’inconsistenza dati, in quanto funziona su due partizioni disco, attivate alternativamente uno alla volta, in questo caso la partizione inattiva potra’ essere aggiornata offline effettuado uno swap dei dischi seguito da un riavvio, in modo da poter procedere con gli aggiornamenti. Il riavvio potra’ richiedere da mezzo secondo a un secondo netto.

Infine, CoreOS utilizza una partizione di sola lettura per il filesystem e include il componente etcd come servizio distribuito di configurazione.

Nel prossimo articolo vedremo come funziona nella pratica, nel frattempo vi invito a dare un’occhiata al video qui riportato dal titolo parlante : “PlayStation: Developing Apps on CoreOS”

 

CoreOS anche su Big G

CoreOS Cloud System

CoreOS Cloud System

Da meta’ Maggio la piattaforma di cloud IaaS di “Big G” è in grado di ospitare virtualizzazioni del sistema operativo CoreOS; tramite un annuncio sul blog del servizio è stata resa nota la disponibilità alla creazione di infrastrutture basate su questo sistema innovativo e che permetterà di realizzare infrastrutture in maniera semplice ed efficace.

Il progetto CoreOS è nato da due ingegneri di Rackspace, Alex Polvi e Brandon Philips, e da un ex dipendente Google, Michael Marineu: i tre hanno dato vita ad un sistema operativo dedicato alla tecnologia cloud, molto leggero nel consumo di risorse e in grado di attivare un cluster complesso in poco tempo grazie a degli strumenti di orchestrazione unici. I due componenti chiave di CoreOS si chiamano etcd e fleet: entrambi sono scritti nel linguaggio Go e servono ad alimentare rispettivamente le configurazioni del cluster e il deploy delle applicazioni tramite dei container Docker.

Google si allinea quindi a Amazon EC2, Rackspace Cloud e altri provider di infrastrutture cloud dove CoreOS è già selezionabile, il sistema operativo è già compatibile con OpenStack e KVM, aspettiamoci di vedere presto crescere le quote di mercato di questo prodotto possiamo ritenere che riempa il buco dei sistemi operativi dedicati al clouding.

 

#Coreoscloudcomputingsystem